
Questa breve, ma intensa, storia, ci viene proposta da un nostro vecchio amico, il Dott. Pasquale (Lino) Russo,
ex Medico sportivo della SSC Napoli e, per diversi anni, Medico sociale
della nostra Società, dai tempi della fondazione della Podistca Il
Laghetto di cui, ancor oggi, ne è Socio Onorario.
Questa emozionante storia è scritta dalla Dott.ssa Maria Federica Feliciano,
un giovane Medico operante presso il Covid Center di Ariano Irpino; In
essa racconta la sua esperienza vissuta tra le stanze, i
corridoi e le terapie intensive dell'ospedale, ad assistere gli
ammalati di Covid. Oltre a raccontare la cruda realtà a cui si
assiste, talvolta impotenti, le speranze a cui ci si aggrappa, lei ed i
suoi colleghi e soprattutto gli ammalti e lo sconforto o le attese per
una vita che cammina su di un filo sottile e dal quale può cadere
da un momento all'altro, induce ognuno di noi alla
riflessione che: "Dovremmo essere riconoscenti per ogni respiro, grati
perché siamo in vita e possiamo godere del sole, del freddo, di una
carezza, del cambio delle stagioni e sì, anche di un Natale diverso.
Aprire gli occhi nel nostro nido sicuro, rendere grazie e contemplare
questo miracolo chiamato vita.
E continuare, inconsapevoli e fortunati, a respirare."
Vi invito a leggere
Covid è (se vi pare)
La mia esperienza in ospedale.
È mattino. C’è un
freddo pungente. Non vi è anima che cammini. Abbasso un attimo la
mascherina e respiro. Respiro. Profondamente. Caccio fuori tutta l’aria
viziata di una notte difficile. Riempio i polmoni con l’aria salubre di
una città sofferente. Una città che non mi appartiene ma che mi ha
accolta come una figlia. Guardo la danza delle foglie trascinate dalle
note di un vento autunnale. Mille sfumature di giallo cadendo lasciano
intravedere lo scheletro degli alberi, spettri che resistono al gelo. E
sui rami si ergono, forti e sicuri, i nidi. I nidi. Penso alla mia
casa, calda e lontana. Penso alle case dei miei pazienti, ai familiari
che attendono al telefono, in trepidante attesa anche solo di una
parola di conforto.
Perché, una volta entrati nel reparto Covid-19, non hai più nessun contatto umano.
Non hai più nessun
contatto col mondo, se non con lo schermo di un telefono, una tuta
bianca ed una visiera dietro cui ci può essere un medico, un
infermiere, un OSS. Ci riconosciamo soltanto dagli occhi. E a quegli
occhi si elevano richieste di aiuto. I giorni passano tutti uguali
nelle stanze dell’unità di degenza e di subintensiva, scandite
dall’orario di terapia, dai pasti e dagli allarmi dei monitor che
oramai tormentano i miei sogni. Tin. Tin. Tin. Saturazione. Frequenza.
Pressione. Si vive con la speranza di vedere quei maledetti valori
migliorare, che l’ossigeno si possa togliere e il viso possa
ridistendere i solchi lasciati dalle maschere, cicatrizzare tutte le
croste e dissetare le gole seccate. Catapultata. Completamente
catapultata, a solo un anno dalla laurea in medicina, nel ruolo di
rianimatore, anestesista, cardiologo, pneumologo, nefrologo, neurologo
e chi più ne ha ne metta. È vero, non sono sola. I primari e la
caposala sono sempre disponibili e attenti e, con tutto il team di
giovani medici, infermieri ed OSS, si è creato sin da subito un clima
di grande collaborazione e affiatamento. Abbiamo aperto insieme questo
reparto ed ognuno sa che è un perno fondamentale, che il lavoro di
squadra è importante, quanto il sacrificio, la dedizione,
l’abnegazione. Siamo tutti consapevoli del grande sforzo fisico e
morale che questo compito e questa missione richiedono, della grande
responsabilità e della profonda coscienza, per cui siamo diventati
spalla l’uno per l’altro e non ci tiriamo indietro, neanche per le
mansioni che non ci competono. Perché, dopo dodici ore chiusi nelle
tute, senza mangiare, bere ed andare in bagno, abbiamo tutti lo stesso
sudore, sentiamo tutti la stessa stanchezza e talora frustrazione,
scrutiamo i nostri visi sconosciuti sotto i segni delle mascherine e
dei copricapi. Ma torniamo. Torniamo sempre. Puntuali. Con la stessa
forza, lo stesso sorriso e la stessa volontà di dare una mano, di fare
andare bene le cose, anche dopo il turno più duro. È per tutti loro. I
nostri pazienti. Aggrappati ad ogni respiro. Per alcuni è solo lunga
attesa e pazienza, fra farmaci, prelievi, tac e tamponi. Gli anziani,
spesso quelli provenienti dalle case di cura, sono disorientati,
perdono il contatto con la realtà, urlano nomi di persone, chiedono
aiuto. Tremano sotto le coperte e sussurrano parole dolci e
riconoscenti quando si dedica loro una carezza. C’è chi ti scambia per
la figlia che non vede da tempo, chi ti stringe forte la mano per paura
che tu vada via, chi si sveglia d’improvviso e ti chiede una birra.
Nonno P. mi tirava a sé con una tale forza…voleva solo abbracciarmi,
darmi un bacio (che finiva sulla visiera) e pregarmi, piangendo, di
mandarlo a casa sua, dalla sua famiglia. E lui, a 96 anni, nella sua
casa ci è tornato. Gliel’avevo promesso e così è stato. A 96 anni la
sua tempra gli ha fatto sconfiggere il virus. Ho pianto di gioia nel
saperlo di nuovo circondato dall’affetto dei suoi cari, nel calore di
quella casa e di quella vita di cui mi raccontava arrancando e
dell’amore di una moglie che non c’era più ma che vividamente continua
a vivere nei suoi ricordi. Gli anziani. Il punto più debole ma così
forte della nostra società. Le nostre radici, la nostra saggezza. Una
ricchezza ed un esempio immensi. E fa così male al cuore vederli soli,
impauriti e sconfortati in questi letti bianchi. Alcuni ci chiedono
quando verranno i parenti a trovarli, altri si disperano perché temono
non usciranno vivi e moriranno soli. Cerchiamo di farli comunicare
sempre con i loro cari, tramite i nostri cellulari. Quelle telefonate
col vivavoce che rimbomba forte e le parole che aleggiano cercando di
portare forza e speranza. E non sai mai quando sarà l’ultima
telefonata. Se stiamo per portarli in rianimazione, per intubarli e
ancora hanno un ultimo respiro per parlare, facciamo veder loro i
familiari. Perché, dalla rianimazione, non tutti riescono ad uscire. E
perché, per taluni, è una corsa contro il tempo. Quando gli organi
iniziano a cedere sotto il potere devastante di questo virus, non c’è
intubazione o terapia che tenga. E allora sì, siamo gli ultimi a
vederli vivi. Gli ultimi ad averli coccolati, curati, tenuto la mano,
accarezzati, ascoltati, confortati. Ci raccontano le loro vite,
diventiamo parte del loro universo e tutto ruota intorno a quei momenti
di umana carità. Li stringi forte ogni giorno sperando di vedere
miglioramenti. Intrecci le tue dita coperte da due strati di lattice
nelle loro dita fredde, raggrinzite, impaurite. Mano nella mano. Per
non farli sentire soli. Perché in questa battaglia ci siamo insieme. Ma
poi ti trovi le tue mani sul loro petto, a spingere le costole per far
ripartire il cuore. Quel cuore che fino a poco prima batteva e batteva
e raccontava chi era. E preghi che continui a battere e raccontare, che
alla fine ognuno di loro diventa parte di te, delle tue giornate e i
loro affanni diventato i tuoi, le voci dei loro cari, dei loro figli,
ti sono oramai familiari. E non farò mai l’abitudine ad un’anima che
vola via. Ad una vita che finisce. Al dover dichiarare l’ora del
decesso mentre scorre piatta la linea dell’elettrocardiogramma. Al
dover risentire quelle voci familiari per dar loro la triste notizia.
Si stringono forti i nodi alla gola e al cuore di fronte alle loro
urla, al loro strazio, al loro dolore. Riattaccano il telefono. E resto
sola. Ho il viso rigato dalle lacrime. Resto sola. Con la salma. Con
quella che fino a poco fa era una vita. Con la sua storia, le sue
esperienze, i suoi sogni. Chiudo i suoi occhi ed elevo una preghiera al
Signore. La conservo sul cellulare. È una preghiera che mi ha
consigliato un mio amico prete per non lasciarli soli per il trapasso
della loro anima. Non credevo l’avrei usata così tante volte. Non
credevo che avrei dovuto rianimare e tentare di far battere il cuore
così tante volte. Li ricordo tutti. I loro volti, i loro occhi, il loro
modo di parlare, i loro racconti, i loro sorrisi, la loro speranza.
Molti erano giovani. Molti davvero nutrivano quella speranza. Questo
virus non ha pietà. Si infiltra negli angoli più deboli, trova il
tallone d’Achille e scaglia la freccia…Tin. Tin. Tin. Una continua
oscillazione fra onde e linea piatta…
Respiro. Guardo
ancora quei nidi. Quest’anno sarà un Natale diverso per tutti. Ma c’è
chi si lamenta per le restrizioni o per le piccole norme a cui
sottostare per il rispetto di se stessi e degli altri. Forse non si
capisce fino in fondo la fortuna di averlo quel nido, di restare al
sicuro, protetti, al caldo, fra le braccia di chi si ama. C’è bisogno
di una rivoluzione dei cuori e dei pensieri, di tornare alla vera
essenza della vita, alla gioia delle piccole cose, ai tanti doni che
abbiamo e che diamo per scontato, a tutte quelle fortune verso cui
siamo ciechi. Dovremmo essere riconoscenti per ogni respiro, grati
perché siamo in vita e possiamo godere del sole, del freddo, di una
carezza, del cambio delle stagioni e sì, anche di un Natale diverso.
Aprire gli occhi nel nostro nido sicuro, rendere grazie e contemplare
questo miracolo chiamato vita.
E continuare, inconsapevoli e fortunati, a respirare.
Maria Federica Feliciano Medico presso il Covid Center di Ariano Irpino
|